lunedì 16 febbraio 2009

Questo piccolo grande amore

Anno: 2009
Regia: Riccardo Donna
Distribuzione: Medusa

I film musicali erano molto in voga in Italia sul finire degli anni Sessanta. Ricordiamo tra gli altri quelli con protagonisti Rita Pavone e Gianni Morandi, ad esempio “Little Rita nel West” e “Non son degno di te”, i quali tra una storiella adolescenziale nata sui banchi di scuola o nel lontano Texas si riuscivano a inserire sequenze in cui gli attori cantavano i loro pezzi di maggior successo.

Tale eredità cinematografica fu poi ripresa egregiamente da Albano e Romina Power in film come “Il suo nome è Donna Rosa”. Partendo da questa premessa è forse più facile capire una certa filmografia italiana di questi ultimi tempi: da “Albakiara” a “Jolly Blue”, passando per “Laura non c’è”, fino ad arrivare a “Questo piccolo grande amore”. Tutti questi film hanno in comune il fatto di aver tratto ispirazione da una canzone famosa per raccontare una storiella d’amore senza pretese. Nel caso ultimo di “Questo piccolo grande amore” diretto da Riccardo Donna, inoltre, bisogna anche dire che vi è un precedente con Raul Bova dal titolo “Piccolo grande amore” del 1993 diretto da Carlo Vanzina. Naturalmente si tratta di una coincidenza, in quanto i due film non hanno nulla da spartire l’uno con l’altra.

Anni Settanta. Andrea, futuro architetto di periferia, sogna un mondo libero, senza guerre e dove tutti sono felici. Giulia, romana aristocratica del centro, va a scuola e vorrebbe un mondo pieno di fiori. I due si incontrano in un bar del centro durante una manifestazione contro la guerra. L’amore li accompagnerà…

Che dire di questa ennesima produzione a tavolino made in Italy? Non molto, in effetti. A parte che ha qualche intuizione felice modello “Across the Universe”, come la scena hippy del matrimonio, ma naturalmente senza la fastosità di quel film e senza neppure i Beatles a raccontarla.Alla regia troviamo un esperto di fiction come Riccardo Donna (“Un medico in famiglia”), mentre alla sceneggiatura invece l’amico Ivan Cotroneo, su soggetto di Claudio Baglioni. I due comunque non ci mettono molto a rendere “Questo piccolo grande amore” un film anestetizzante. Senza però entrare nel merito di regia, recitazione e sceneggiatura, tutte senza infamia e senza lode e tendenti a una generale mediocrità, il film è semplicemente, e palesemente, un tributo alla musica del cantante romano. A tal punto che ad esempio, in una scena in cui il protagonista Andrea si ritrova a disegnare sui muri della caserma, quello che crea è la copertina del disco di Claudio Baglioni: proprio “Questo piccolo grande amore”.

Ci asteniamo da ogni commento confidando, noi si, nell’intelligenza del pubblico.

Diego Altobelli (02/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/
segui l'intervista su http://www.moviesushi.it/

Operazione Valchiria

Anno: 2009
Regia: Bryan Singer
Distribuzione: 01 Distribution

Bryan Singer aveva già trattato il tema del nazismo nel film L’allievo (1998), tratto da un discusso racconto di Stephen King, con un semisconosciuto Brad Renfro e un enigmatico Ian McKellen che poi tornò nel ruolo di Magneto nella saga dedicata agli x-pupilli di Charles Xavier. Malgrado questo precedente, vi erano molti dubbi su Singer e sulla sua regia, spiccatamente hollywoodiana, nel raccontare Operazione Valchiria: storia vera dell’attentato fallito per uccidere Hitler, nel 1944, compiuto dal colonnello Claus Schenk von Stauffenberg.

Con una produzione accompagnata da esagerate malelingue provenienti da quasi ogni parte dei media (a un certo punto si parlò perfino di film maledetto), Operazione Valchiria ha in realtà un solo vero problema: quello di nascere come film impossibile.

Lo sceneggiatore de I soliti sospetti Christopher McQuarrie decide di usare un approccio sbagliato: non tanto quello di raccontare un thriller, quanto quello di prendere come punto di vista lo stesso von Stauffenberg (per fare un esempio: è come se in Titanic James Cameron avesse raccontato la storia dal punto di vista del comandante della nave…). Più interessante, forse, sarebbe stato puntare l’attenzione su personaggi secondari, magari vittime loro malgrado degli eventi.

Ma è Hollywood e c’è Tom Cruise, che non è un cattivo attore, anzi, ma ha bisogno di essere diretto da un regista con il polso fermo, altrimenti finisce per recitare come farebbe lo stesso Tom Cruise a briglie sciolte: gigioneggiando. Bryan Singer dal canto suo ci prova, e con impegno, sia a dirigere gli attori che la trama, ma è evidente che tiene in mano qualcosa più grande di lui. Non ha a che fare con i mondi fittizi di X-Men o Superman, e non ha a che fare con Magneto o Lex Luthor, ma con Hitler e il Terzo Reich. La storia, quella vera. Con questa drammatica consapevolezza Singer (anche se quarantenne forse troppo giovane per assumersi, con cognizione di causa, un compito tanto oneroso) cerca la scappatoia, la strada meno dolorosa, trasformando Berlino in un paio di location tratteggiate a matita e Hitler in una mera comparsa senza lo spessore che ci si aspetterebbe. Agli attori, invece, decide di far fare a loro, e non avrebbe nemmeno tutti i torti potendo affidarsi a nomi come Kenneth Branagh, Terence Stamp e Tom Wilkinson, ma non basta e il film si fa presto monocorde e privo di mordente.

Rimangono un paio di scene degne di essere commentate, forse tre: von Stauffenberg che ricorda l’ultimo saluto alla famiglia, la scena del bombardamento in Africa, e la notizia della morte di Hitler nel volto delle telescriventi. Queste sono Cinema, la Storia invece la troviamo sui libri.

Diego Altobelli (01/2009)
estratto da http://www.moviesushi.it/html/article.php?id=1028

Revolutionary Road

Anno: 2009
Regia: Sam Mendes
Distribuzione: Uip

Tratto dall’omonimo romanzo di Richard Yates, ora edito da Minimum Fax, “Revolutionary Road” prende vita al cinema sotto la cura registica di quel Sam Mendes venuto al successo con “American Beauty”. E in effetti la cifra stilistica del regista richiama fin troppo da vicino quella pellicola del 1999, tanto da poter considerare questo “Revolutionary Road” una sorta di prequel ideale.

Nell’America del 1950 due giovani si incontrano e si amano facendo affidamento solo sulla passione e sulle aspirazioni personali. Lei giovane attrice, lui scaricatore di porto ma abile nei conti, si ritrovano dopo una manciata di anni coniugi in una villetta stagliata sulla sibillina Revolutionary Road. Stanca di una quotidianità fin troppo simile a quella delle altre coppie che popolano la strada, April propone al marito Frank di cambiare vita e trasferirsi a Parigi. L’uomo sulle prime accetta, ma la strada che porta alla rivoluzione è assai lunga e lastricata di contraddizioni…

Visivamente asettico, sottolineando con colori quali il beige e il grigio la generale mediocrità che popola le vite (tutte identiche) di impiegati, mogli e mariti negli anni Cinquanta, “Revolutionary Road” si regge sulla grande forza attoriale espressa dai due protagonisti Kate Winslet e Leonardo DiCaprio, qui di nuovo insieme dopo il romantico “Titanic”. Più bravo lui di lei, se non fosse per il fatto che il personaggio di DiCaprio ha molte più evoluzioni rispetto alla coerenza, che sfiora la cecità, espressa dal personaggio della Winslet, i due attori duettano esprimendo efficacemente il profondo conflitto che regola la storia del film: quello sulla realizzazione di un sogno americano fuori dall’America.
Questo tema, espresso con vigore nel romanzo, che mette in luce con maggiore chiarezza lo stato di prigionia mentale (ma anche fisica) vissuta dai protagonisti, nel film di Sam Mendes si fa vago e poco incisivo, echeggiando gli aspetti più ribelli di “American Beauty”, ma non aggiungendo nulla di nuovo rispetto a quanto già espresso (e visto) in quel film.
Inoltre il finale troppo prolisso, dove Mendes scivola su una scenetta goliardica in stile Casa Vianello, finisce per sminuire i profondi assunti di partenza, generando troppi dubbi su quello che il regista voleva davvero esprimere.

Non un brutto film, va specificato a chiare lettere, ma forse troppo prolisso e autocompiaciuto.

Diego Altobelli (02/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2006

Venerdì 13

Anno: 2009
Regia: Marcus Nispel
Distribuzione: Uip

Guai a parlare di crisi di idee nel cinema a Hollywood. E guai a parlarne nello specifico dei generi. Meglio parlare di remake, versioni attualizzate, omaggi, soprattutto nel cinema horror. I produttori Michael Bay, Andrew Form e Brad Fuller cominciarono con “Non aprite quella porta” nel 2003 e a quello sono seguiti vari rifacimenti come “Halloween”, “Le colline hanno gli occhi”, e ora anche “Venerdì 13”.

A Crystal Lake si respira un’aria di morte dopo che nel lontano 1980 un’intera combriccola di campeggiatori fu massacrata a colpi di machete. Oggi, cinque giovani inconsapevoli si ritrovano a passare lì il weekend e il loro campeggio si trasforma in un’altra carneficina. Tra le vittime c’è anche Jenna, ma suo fratello si mette a cercarla…

Marcus Nispel aveva già diretto il remake di “Non aprite quella porta” con esiti più felici. Questa sua versione di “Venerdì 13” non è male, invero, ma si ha la sensazione che si poteva fare qualche cosa di più sotto ogni aspetto. La regia non concede molto all’immaginazione e alla suggestione che soprattutto nelle prime pellicole della saga traspariva dall’ambientazione, suelle rive di un lago maledetto. Inoltre, il passato decantato di Jason non viene approfondito a dovere. Infine, neppure l’intenzione è chiara, se cioè il film vuole essere un remake, un sequel o persino un prequel.

Un ibrido quindi, divertente se si è alla ricerca di un po’ di “sano” splatter, ma senza impegno, né da parte del pubblico, né da parte dei realizzatori.

Diego Altobelli (02/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2012

Il curioso caso di Banjamin Button

Anno: 2009
Regia: David Fincher
Distribuzione: Warner

Un film sulle occasioni mancate, così potrebbe essere definito il nuovo film di David Fincher “Il curioso caso di Benjamin Button, ispirato da un racconto di Scott Fitzgerald.

Benjamin è nato vecchio e la sua vita, quindi, si può dire che scorre al contrario. Curiosamente però, malgrado questo drammatico handicap, Benjamin vive le medesime esperienze di un uomo qualunque. L’iniziazione al sesso; il primo amore; la gioventù e i primi ardori politici sullo sfondo della Grande Guerra; fino all’emozione di avere un figlio e l’abbandono della donna che ama…

Con “Il curioso caso di Benjamin Button” David Fincher (“Fight Club” e “Zodiac”) ci regala il suo film più complesso. In esso ritroviamo certamente quelle cifre stilistiche che hanno caratterizzato la produzione del regista, come l’attenzione per il grotesque o l’ironia diffusa nel modo di raccontare, ma anche una delicatezza che dall’autore di “Seven” non ci saremmo davvero aspettati.

A rendere la storia di un diverso una storia universale, ci ha pensato lo sceneggiatore Eric Roth, già autore di “Forrest Gump”. Mentre lì, però, l’handicap di Forrest caratterizzava la vita del protagonista, qui il difetto di Benjamin non ha peso effettivo sulla sua esistenza. Il risultato è un suggestivo viaggio a ritroso che ha molto di concettuale e poco di concreto. La storia di Benjamin è in fondo quella di una vita banale dove chiunque vi si può rispecchiare. In essa si susseguono episodi che hanno molto della narrativa breve alla Carver o alla Capote, come il racconto del primo amore consumato in un albergo con una sconosciuta, o la scena della battaglia in mare con dei compagni di ventura. Il filo conduttore di questi racconti è poi sempre lo stesso: la vita, che si va plasmando in un balletto infinito di occasioni mancate, rimandi storici, ritorni imprevisti e destini incrociati.
Vale la pena spendere qualche parola anche sul lavoro di make-up ed effetti speciali. La trasformazione attuata su Brad Pitt è epocale, mentre quella sulla protagonista femminile Cate Blanchett è ugualmente straordinaria. Insieme i due attori danno vita a due interpretazioni magnifiche.

Non un film semplice, insomma, anche a causa della durata forse eccessiva, ma sicuramente “Il curioso caso di Benjamin Button” emoziona, e non si dimentica.

Diego Altobelli (02/2009)
estratto da http://www.tempimoderni.com/db/dbfilm/film.php?id=2010